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  • Immagine del redattoreLaura Campiglio

Una stanza tutta per sé


Ieri sera dovevo uscire con la mia amica C.

Rimandavamo questo incontro da settimane, così quando i suoi piani di guerra per il babysitteraggio della prole sono saltati abbiamo deciso di vederci comunque: la presenza di un terzo incomodo nella piccolissima persona del suo bimbo di un anno e un mese non ci avrebbe private della nostra serata. Va detto che questo terzo incomodino era ben poco fastidioso: se ne stava buono nel passeggino ciancicando il suo ciuccio con evidente soddisfazione e ben prima che io e la di lui madre giungessimo al terzo bicchiere dormiva beato. Tutto perfetto insomma se il bambino, nell’attimo fugace tra la caduta del ciuccio e la sua pronta sostituzione con quello di scorta, non avesse avuto la malaugurata idea di emettere un flebile pianto, anzi neanche un pianto: un frignino, uno gne-gne. Sarà durato due o tre secondi (meno di ognuno degli svariati brindisi che il tavolo dietro di noi continuava a proporre alla salute di tale Martina), e quanto ai decibel non saprei, ma trattandosi di un infante e non di un baritono presumo che l’intensità del suono equivalesse più o meno a quella dei video che i due tizi del tavolo accanto riproducevano dal telefono.

Sebbene il mini pianto del nostro mini ospite fosse ben poca cosa rispetto al rumore tutt’attorno – rumore di cui non mi sto lamentando: se un bar non è incasinato non è il mio bar – quel misero gne-gne è bastato a far convergere su di noi sguardi di biasimo, occhi al cielo e sbuffi il cui sottotesto era palese: che due coglioni ‘sto bambino. E anche, immancabilmente: ma non potevate starvene a casa?

Questa cosa che i bambini rompono i coglioni e dovrebbero quindi starsene a casa la sentiamo ripetere da anni, declinata in molteplici varianti a seconda del contesto e della stagione.

I bambini in spiaggia, che croce: non potrebbero starsene a casa o al limite fare un tuffetto in fascia oraria 7:30-10, quando fa fresco e non c’è nessuno?

I bambini in treno/aereo, dio ci scampi: se non sono in grado di stare tre ore senza frignare (ti vedo, lettore che stai per protestare e specifico subito che no, non sto parlando del capriccio del cinquenne ma del misterioso e insondabile pianto dell’infante che non verbalizza ancora) non potrebbero starsene a casa, che io devo ascoltare i messaggi vocali in viva voce, parlare al telefono notificando al vagone intiero i fattacci miei e guardarmi Tik Tok senza cuffie?

I bambini al ristorante, pura barbarie: sporcano, sbavano, fanno casino, finché non avranno imparato a stare in società non potrebbero starsene a casa, poveretti, che la confusione attorno li frastorna e li rende ancora più nervosi?

E i bambini al bar, stiamo scherzando? Vi sembra il posto, vi sembra l’orario? Non potevate starvene a casa che poi quello perde il ciuccio e piange e noi vorremmo alzare i calici a Martina in santa pace?

La disinvoltura con cui tanti si sentono in diritto di dichiarare che una categoria umana dà fastidio e debba quindi essere estromessa dal consesso civico (una disinvoltura che a volte è iperbolica – voglio sperare che le ricorrenti invocazioni a Erode non vadano prese alla lettera – e a volte mica tanto) non ha fortunatamente paragoni: se qualcuno osasse dire le stesse cose di anziani e ammalati sarebbe giustamente tacciato di nazismo, se avesse l’ardire di tirare in ballo i cani verrebbe linciato sul posto.

E quando una madre si permette di dire ok, ma allora io cosa dovrei fare? non salire più su un treno, non mangiare più una pizza (ti vedo, lettore che stai pensando: baby sitter. E ti ricordo che una baby sitter costa dieci euro all’ora), non andare più al mare? Allora eccoli lì a sciorinare gongolando la risposta che non vedevano l’ora di sbatterti in faccia: ti arrangi, cara mia. Te l’ho detto io di fare un figlio? L’hai voluto, adesso pedala.

In questi giorni faccio fatica a distogliere il pensiero da quello che è successo al Pertini, quel neonato morto mentre lui e la madre erano affidati alle cure dell’ospedale, quella donna entrata incinta e uscita senza il suo bambino. Ora, io lo so che questa tragedia va inscritta in un quadro enormemente complesso che ha a che fare con violenza ostetrica e mistica della maternità, applicazione ideologica delle linee guida dell’OMS e carenza di organico del SNN; e so anche che c’è un’inchiesta in corso e le responsabilità non sono ancora certe. Ma davanti alle migliaia, decine di migliaia di testimonianze emerse in quest’occasione, mi sembra di vedere profilarsi una logica comune, sempre la stessa, che suona proprio come sopra: arrangiati. Hai voluto il bambino, pedala.

Che si tratti della decisione scellerata di abbandonare a sé stessa una neo mamma prostrata dal sonno e dal dolore fisico ignorandone le esplicite richieste d’aiuto o dell’innocente battuta (battuta?) con cui si dice a una donna e a suo figlio che in spiaggia loro non dovrebbe essere ammessi, alla base c’è la stessa postura psicologica, che potremmo sommariamente sunteggiare in due semplici parole: cazzi tuoi. E non è poi così assurda neanche l’apparente contraddizione tale per cui gli stessi che oggi s’indignano per quanto accaduto nell’ospedale romano domani saranno prontissimi a rinfocolare il flame sui figli degli altri al ristorante: al Pertini è morto un neonato, il dramma è fin troppo evidente, l’insulto alla vita flagrante. Ma dire a una madre che se si leva dalle palle è meglio per tutti, che sarà mai?

Al di là dei proclami bercianti delle destre sempre pronte a mitizzare l’archetipo della mamma che è sempre la mamma, il mondo reale aveva già ampiamente dimostrato la sua scarsa simpatia per le donne munite di figli: se non erano le occhiatacce in treno era il mobbing sul lavoro, o il candore con cui ti senti dire “sai, io detesto i bambini” da gente che sa benissimo che tu ne hai due o ancora quelli che durante il lockdown si lamentavano del pianto del figlio dei vicini mentre loro avevano una call o una diretta Instagram da fare (cose che magari dovevano fare anche i vicini, ma anche qui: te l’ho detto io di fare un figlio? Arrangiati, pedala).

La sorpresa amarissima che molte di noi hanno avuto con il parto è che anche nei reparti ospedalieri adibiti precipuamente alla cura delle madri l’empatia verso di loro sia una merce così rara. A meno che dire a una puerpera ecco il tuo bambino, arrangiati, non sia un raffinato training per prepararla a quello che si sentirà dire per i due anni successivi, in maniera più o meno esplicita: l’hai voluto, pedala.

(Piccola parentesi a consumo dei padri, che forse a questo punto stanno iniziando ad adontarsi: ma come, e noi? Non li portiamo, noi, i figli in spiaggia, al ristorante, in aereo? La risposta è sì, li portate, ottimo. Ma se vi dovesse mai capitare di fare un viaggio in treno da soli con un bambino e il vostro passeggino fosse d’intralcio o – peggio – il bambino dovesse piangere, non incorrereste mai nella sanzione sociale di cui sarebbe oggetto una donna nella medesima posizione. Anzi, voi sareste il padre eroico che si spupazza il figlio da solo, e il biasimo sarebbe tutto per la madre snaturata e assente che l’ha mollato a voi, povero bambino, sfido che piange).

Il 25 gennaio era l’anniversario della nascita di Virginia Woolf, che in Una stanza tutta per sé (1929) scrive quella che lei stessa definisce “an opinion upon a minor point” e che invece emergerà nel secolo a venire come verità sacrosanta: se vuole scrivere, una donna deve avere dei soldi suoi e una stanza tutta per sé. L’atto dello scrivere – il saggio è tratto da due conferenze in cui Woolf parlava di letteratura femminile – può essere sostituito con qualsiasi altra occupazione, la sostanza non cambia: se vuole lavorare, pensare, avere una sua vita, una donna deve avere una stanza tutta per sé. Non si parla di uno spazio interiore in cui coltivare identità e interessi, ma di un vero e proprio spazio fisico distinto dalla stanza comune, quella in cui i figli ti si abbarbicano addosso e ogni trenta secondi c’è qualcuno che ti chiama per dirti questo e chiederti quest’altro. Niente metafore, insomma: quando Woolf parla di una stanza tutta per sé intende proprio un locale separato con una porta da chiudere per lasciare fuori tutti, anche i figli, soprattutto i figli. Un lusso che nessuna donna della sua epoca poteva permettersi e che anche in questi sciagurati tempi di smart working e “tanto tu lavori da casa” è appannaggio di pochissime (e vorrei vedere, con i prezzi al metro quadro).

Sempre a proposito di stanze, se usciamo dal sogno dello studiolo che non abbiamo e non avremo mai entriamo dritte in una metafora tristissima. Questa: per molte madri non solo i primi giorni ma i primi mesi, forse anche i primi anni, sono un interminabile rooming-in. Una stanza chiusa ma con i bambini sempre addosso – l’esatto contrario di quanto diceva Woolf – dove ti tocca abdicare a te stessa e alla tua vita per occuparti di loro mentre nessuno si occupa di te. Qualcuno in quella stanza ti vorrebbe murata viva e te lo dice impunemente, lo dichiara a social unificati, te la butta lì ridacchiando: finché il bambino è cresciuto niente vita sociale, niente viaggi, niente svaghi. E ovviamente no, niente serate al bar con una tua amica. Chiudetevi dentro, tu e tuo figlio, e arrangiatevi. Non importa come e se ne uscirete, importa solo che non rompiate i coglioni: hai voluto il bambino, pedala.

È per questo che la settimana prossima io e C. abbiamo deciso di rilanciare al raddoppio: un’uscita solo io e lei per starcene tranquille e una io lei e il terzo incomodino così, per pura cazzimma. E per ricordare al mondo che il mondo è di tutti, donne e bambini compresi.


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