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Immagine del redattoregiuseppe civati

Una storia che sarebbe dispiaciuta a Alex Langer 




La riporta la stampa altoatesina (in particolare l’Alto Adige)


«So di dire una cosa che rischia di sollevare un vespaio di polemiche, ma parlo innanzitutto nell’interesse dei bambini. Per accedere alle scuole di lingua tedesca bisogna introdurre un piccolo test d’ingresso. Questo potrebbe essere un modo – ben venga se ci sono idee migliori – per gestire la presenza sempre più forte di bambini italiani e stranieri nelle scuole di lingua tedesca che sta creando non poche difficoltà a più livelli». A sollevare un problema vecchio, ma sempre quantomai attuale a vedere le lamentele di genitori e insegnanti – gli unici a non parlare sono i bambini, troppo piccoli forse per avere voce in capitolo – è l’assessora comunale alla scuola Johanna Ramoser.

L’assessora denuncia: «Cominciamo dalle famiglie tedesche che si lamentano perché i bambini, che a casa parlano in dialetto, a scuola dovrebbero imparare l’Hochdeutsch, ma non lo imparano come dovrebbero, perché le insegnanti devono parlare più in italiano che in tedesco, visto che in molte scuole c’è ormai una prevalenza di italiani e stranieri.» 


Da qui l’idea del test d’ingresso. Non soltanto per gli stranieri ma anche per gli italiani. Non è certo la prima volta che si pone la questione, né in Alto Adige, né in Italia. Tetti, test, percentuali, soglie di cui si è a lungo discettato negli ultimi anni.


Colpisce però l’inversione che induce a una riflessione non banale.


Djarah Kan ha scritto parole, al solito, illuminanti su Instagram.


Da ragazzina pensavo che se fossi stata bianca la mia vita sarebbe stata migliore. Pensavo alle botte e alle umiliazioni risparmiate. Alla possibilità - immaginata - di non vedere alcun ostacolo di fronte al mio cammino. La bianchezza era libertà. Una chiave che apriva tutti i cancelli e che ti lasciava scorrere nella vita, senza intoppi. Crescendo però ho capito che c'era una differenza anche tra bianchi e che quell'etichetta poteva avere varie declinazione.
La bianchezza non ti salva dalla povertà. Me lo diceva sempre mia madre. Lavorava come volontaria alla Caritas e ogni sabato distribuiva pacchi con beni alimentari per conto della Parrocchia. La maggioranza delle persone che ricevevano il pacco erano immigrati, ma negli anni gli italiani a chiedere aiuti erano sempre di più. E nonostante la loro condizione di povertà odiavano il fatto di dover essere serviti da mia madre, una donna nera. Quel sentimento di intolleranza era cresciuto in concomitanza con la campagna della Lega Nord per la bianchizzazione del Meridione. Si era passati dal "Vesuvio lavali col fuoco" a "il problema del Sud Italia è l'immigrazione clandestina" e in molti, pur di sentirsi esonerati dall'odio razziale e antimeridionale che è parte della storia di questo Paese, ci hanno creduto. Abbraccciando quel privilegio bianco che fino ad allora gli era stato negato.
La bianchezza non ha un valore universale. Il valore della bianchezza di un francese è maggiore del valore della bianchezza di un moldavo o di una persona polacca. Il valore della bianchezza di un albanese è inferiore a quello di un italiano. E il valore della bianchezza di un italiano è inferiore a quello di uno Svizzero. E ciò avviene perché esistono Paesi Europei ricchi e Paesi Europei poveri.
La bianchezza è un sogno. Un'illusione dalla quale non ci si sveglia quasi mai del tutto. La bianchezza è una moneta universale con una valore instabile, che tutti vorrebbero spendere nel mercato globale dei privilegi, nonostante la sua evidente inaffidabilità. Ed è constatazione a cui arrivi, se hai la fortuna di essere nera, italiana e meridionale. Mettere il proprio privilegio al servizio della realtà è un esercizio essenziale.

In generale torna alla mente Alex Langer, che aveva maturato fin da ragazzo le sue idee sulla convivenza proprio in quanto altoatesino, lottando per sottrarsi alle etichette e alle definizioni etniche, cercando soluzioni che fossero, direbbe l’assessora, idee migliori di quelle che continuiamo a sentire, compresa questa. Ponti e non muri, relazioni e non blocchi, soluzioni faticose e non editti definitivi.


In gioco ci sono tante cose, e sono complesse. Ma tutto dipende, credo, dalla difficoltà di riconoscersi come minoranza, essendo convinti di essere maggioranza in ogni caso, anche quando non lo si è, come in questo caso, o quando le cosiddette minoranze sono maggioranza (e come si fa, allora?). 


Non è necessario fare riferimento alla definizione di «global majority» che in Italia, guarda caso, non usa quasi nessuno (i non-bianchi, nel mondo, sono l’85% degli esseri umani e prima o poi dovremo prenderne atto): basterebbe fare i conti con ciò che la nostra società è e sarà, senza farsi travolgere da identitarismi e tradizionalismi che deformano la nostra stessa storia e non ci fanno vedere le cose come stanno.


In Alto Adige gli occupanti erano gli italiani e il fascismo diede pessima prova di sé. Anche gli anni della Repubblica, soprattutto i primi, sono stati tormentati. Ora ci si mettono pure gli stranieri e i troppi italiani. È una sfida culturale che riguarda noi, i nostri figli e i nostri nipoti. Chissà che qualcuno, partendo da Bolzano, non voglia ripartire proprio da Langer, una buona volta.

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