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  • Immagine del redattoreFranz Foti

Uomini e topi



C’era una volta, in un paese lontano lontano e molto molto bizzarro chiamato Florida, un (governato)re che tutti i giornali del mondo raccontavano come l’alternativa “moderata” a Trump.

Questo principe senza macchia e senza paura si chiamava Ron DeSantis.

Ok, vi starete domandando il perché di questo incipit fiabesco. E quando leggerete la storia che sto per raccontarvi, il dubbio che io mi sia bevuto il cervello una volta per tutte si farà strada prepotente in voi. Eppure è tutto vero.

Parliamo, appunto, di Ron DeSantis, il potente governatore dal pugno di ferro della roccaforte repubblicana della Florida, più che probabile prossimo sfidante di Donald Trump nelle primarie che determineranno chi sarà il repubblicano a sfidare il presidente uscente Joe Biden alle prossime presidenziali. Quello che, in Italia ma non solo, i media mainstream amano definire come l’alternativa normalizzante a Trump. Una sorta di trumpista light, meno indigesto al mitico voto moderato.

Dicevamo, però, la favola. Ebbene, si dà il caso che il nostro eroe (si fa per dire), il nostro moderatissimo paladino, abbia in queste settimane ingaggiato una lotta senza quartiere con un nuovo arci-nemico. Dopo gli insegnati che parlano dello schiavismo agli studenti, dopo le persone trans, dopo gli immigrati, DeSantis ha infatti individuato la nuova minaccia alla sicurezza e al benessere degli abitanti del suo stato: la Disney. Sì, proprio quella di Topolino, dei cartoni animati, e soprattutto di Disney World, il più grande parco a tema del pianeta, che ha sede proprio in Florida, vicino a Orlando.

Disney World è una proprietà di oltre 100 km quadrati, che ospita ogni anno circa 58 milioni di visitatori, in cui lavorano 75mila persone e che versa nelle casse di DeSantis circa 1,2 miliardi di dollari l’anno in tasse. Insomma, è semplicemente la realtà economica più importante dello stato, che peraltro proprio sul turismo basa gran parte delle sue fortune.

Eppure il bravo amministratore DeSantis — ce lo raccontano sempre come una specie di Zaia a stelle e strisce — ha praticamente dedicato questi primi mesi del 2023 a mettere i bastoni tra le ruote alla proprietà del parco, una delle più grandi corporation del mondo. Un Davide contro Golia che però difficilmente diventerà uno dei grandi classici di animazione della casa del topo con le braghette rosse.

Perché di epico, in questa battaglia, c’è ben poco.

Come quasi tutti i moltissimi mega-parchi a tema di cui la Florida pullula, Disney World gode di uno status molto particolare: in sostanza fa da contea a sé stante, con un proprio consiglio municipale che lei stessa nomina autonomamente. Vista con occhi italiani, una cosa certamente molto bizzarra — un po’ come se Gardaland avesse un suo status di comune e ci beccassimo Prezzemolo con la fascia tricolore —, ma questa è la prassi negli Stati Uniti già dagli anni Sessanta del secolo scorso, quindi non proprio una sorpresa per DeSantis, che pure non ha avuto problemi a lasciare che il mega-parco godesse di questo medesimo status negli anni precedenti. Ebbene quest’anno il buon Ron decide di revocare questa concessione. Poi si rende conto che così facendo tutte le enormi spese urbanistiche di quei 100 chilometri quadrati di hotel, parchi, zoo, cinema, e chi più ne ha più ne metta ricadrebbero sul bilancio della contea vicina, già in forte crisi, e quindi torna sui suoi passi, ma decide che d’ora in poi sarà lui a nominare tutto il consiglio direttivo di questa “contea straordinaria”. A quel punto Disney nomina un team di avvocati coi denti a sciabola che aprono un caso giudiziario che potenzialmente potrebbe guastare i piani per la presidenza del campione della destra trumpista-ma-non-troppo. Citano infatti in causa DeSantis e lo stato della Florida per accanimento ingiustificato, abuso di potere, e violazione delle libertà costituzionali.

Già, violazione dei diritti costituzionali, in particolare della libertà di parola. Sapete perché il moderatissimo DeSantis ha messo nel mirino la Disney? Perché paga troppo poche tasse? No. Perché paga troppo poco i dipendenti? Macché. Per lo smisurato consumo di suolo e di risorse del suo parco a tema, che intende espandersi di altre decine di chilometri quadrati? Siamo seri.


No, il buon amministratore DeSantis ha ingaggiato una lotta senza quartiere con il maggiore contribuente del suo stato perché questo ha osato criticare pubblicamente la legge con cui DeSantis proibisce di parlare di questioni di genere nelle scuole di ogni ordine e grado della Florida, la famigerata (e moderatissima) legge già ribattezzata “Don’t Say Gay”.

Ve l’avevo detto che mi avreste preso per matto.

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