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  • Immagine del redattoreFranz Foti

Non si esce vivi dagli anni ’80: le molte vite di Gilles Bertin


Gilles Bertin © Paulo Abreu (per gentile concessione di Éditions Robert Laffont)

Quella dei trent’anni di latitanza di Gilles Bertin è una storia incredibile, cui è molto difficile non appassionarsi già dalle prime pagine del suo “La mia vita da punk”. L’autore è un ex musicista punk squattrinato che, dopo aver compiuto una delle rapine più assurde e rocambolesche della storie europea, riesce – unico della sua improbabile banda – a sfuggire alle maglie della giustizia per ben tre decenni, vivendo da latitante tra la Spagna e il Portogallo, prima di consegnarsi alla sua natia Francia e scontare una pena brevissima per poi soccombere alla malattia a soli 58 anni, ma dopo una vita talmente intensa e ricca di avventure da sembrare impossibile per una persona sola.


«Vivevamo, allora, un’epoca formidabile.

Con la Guerra fredda, incombeva sul mondo la minaccia di un conflitto nucleare. Si sentiva scalciare dall’altro lato del Muro, da qualche parte verso la frontiera polacca. Negli Stati Uniti, Reagan si preparava a consegnare l’ordine economico mondiale ai suoi cani di Wall Street. In Gran Bretagna, Margaret Thatcher stava per fare strage di minatori in sciopero. E nella nostra dolce Francia, Paese dei diritti umani, la pena capitale non era ancora stata oggetto di dibattito parlamentare: gli ultimi condannati a morte della République aspettavano di farsi tagliare testa... Benvenuti nel 1980. Musica!»

Così inizia – dopo il prologo – questo tuffo negli anni ’80, che Bertin ci racconta dal punto di vista di una gioventù europea disillusa antagonista, arrabbiata. E ce la racconta tutta, con una nostalgia evidente, ma senza edulcorazioni né volontà di glorificare quel decennio e la sua generazione: la fascinazione – cui seguirà il disgusto e il rifiuto – per il terrorismo e la lotta armata, il rifiuto del conformismo reaganiano, ma anche una certa ostilità verso i reduci del maggio francese e i loro valori:


«La p38, brandita dagli autonomi italiani durante le manifestazioni, ha decisamente più appeal ai nostri occhi rispetto ai risultati rapidamente dimenticati della rivolta studentesca del maggio del Sessantotto.»


Un sentimento di estraneità e di rifiuto della società borghese francese che Bertin e il suo improbabile gruppo di amici sbandati esorcizzano con la musica punk, diventando essi stessi musicisti, come nella migliore tradizione Do It Yourself: nascono così i Camera Silens, band di cui Bertin diventa quasi inconsapevolmente leader.


«Non abbiamo un soldo, gli stomaci sono vuoti, le membra gelate, ma che importa? Abbiamo vent’anni, nessun futuro – No future – e la sensazione di essere liberi placa la fame e ci ricarica le batterie.»


Ed ecco la seconda incarnazione di questa storia, che si trasforma in un romanzo di formazione della band, restituendoci l’entusiasmo un po’ cialtrone della scena punk europea, l’epica randagia dei suoi eroi, così distanti dalle biografie delle rockstar che non resistono alla patinatura e ai lustrini nemmeno quando ne raccontano la discesa agli inferi. La mia vita da punk, invece, è piena di autoironia, di uno sguardo che non giudica ma nemmeno mitizza, pieno di quell’urgenza e di quell’autenticità che Bertin rivendica come le due parole che – assieme all’onnipresente rabbia di quegli anni – meglio descrivono i suoi Camera Silens.


Rabbia, urgenza e autenticità sono ciò che muove il protagonista, ma sono anche i demoni che lo possiedono. Il vero filo conduttore del libro è infatti quell’urgenza di vivere al massimo, quella Lust for life, per dirla con Iggy Pop, che porta Bertin in un vortice di eroina e di piccola criminalità, e il nome della sua band – una sorta “cella di sicurezza” in franco-latino maccheronico – diventa premonitore: la sua seconda vita, quella del musicista, si interrompe bruscamente sui cancelli di un carcere e con la sua prima condanna – nove mesi per rapina, di cui né sconterà sei.


Come racconta bene Valentina Mira nella sua introduzione - mentre il racconto prende la sua terza incarnazione, quella del romanzo carcerario – questo romanzo è anche un inno all’inutilità del sistema detentivo come lo conosciamo. Siamo molto lontani da Le ali della libertà o da Papillon, il carcere che ci racconta Gilles Bertin è un’autentica scuola di antagonismo e di crimine, il momento in cui il seme di ciò che sarà la rapina alla Brink’s di Tolosa e della fuga successiva viene piantato. Ad innaffiarlo è però il periodo immediatamente successivo al carcere, quando il protagonista prova a reinventarsi “ex”: ex musicista, ex rapinatore, persino ex-antagonista. Un tentativo di riscatto tarlato dall’ossessione per qualcosa di più, per una vita che non sia solo quella dell’emarginato, ma che non trova soddisfazione nell’esercizio fisico, nelle arti marziali, nel lavoro manuale – o nel lavoro in generale.


«Il progetto di andarsi a prendere la cassaforte della Brink’s vede la luce nel corso di questo periodo, in cui mi trovo al mio minimo storico dal punto di vista morale, fisico e finanziario. Mettere a segno un colpo di cui tutti si ricorderanno e ottenere anche abbastanza soldi per filarsela in America del Sud con compagna e figlio rappresenta una sfida sufficientemente importante per costringermi a rimettermi in sesto. Avendo sperimentato la vita all’aria aperta, non sopporto più di passare le giornate a rammollirmi il cervello guardando la televisione e ammazzandomi di canne.»


Ed è quindi il “grande colpo” a prendere il centro della scena. Solo che più che a Danny Ocean e ai suoi undici ladri geniali, qua siamo più nel territorio di Prendi i soldi e scappa o de La banda degli onesti: ce la farà questa scalcagnata banda di punk, tossici, nazionalisti baschi e anarchici a mettere a segno un colpo da 12 milioni di franchi? Nonostante l’improbabile squadra e l’ancor più improbabile piano, il colpo va incredibilmente a segno, regalandoci pagine memorabili degne di un romanzo picaresco.


Cominciano così i trent’anni di latitanza di Gilles Bertin:

«Ripartire da zero. Quello che è stato, d’ora in avanti non esisterà più. I miei genitori, la mia adolescenza caotica, i Camera Silens, l’eroina, le rapine, le ribellioni, Nathalie: tutto finito. Seziono, taglio, pratico l’amputazione pura e semplice del mio passato.»


Qua il racconto cambia pelle ancora una volta, è una fuga piena di alti e bassi, di risate e di amarezza, che ricorda quasi più un gioco di guardie e ladri che una terribile storia di latitanza fatta di nascondigli angusti e pizzini. Se la legge infatti cattura presto la gran parte della banda, Gilles e pochi altri riescono a scappare, e lui l’amico fraterno Philippe si fermano molto prima dell’agognata America del Sud, in Spagna, dove vivono sotto falso nome fingendosi agenti e promoter di importanti rockstar, giustificando così il proprio aspetto fatto di volti smunti, occhiali a specchio e giacche di pelle, e un tenore di vita non certo da sbandati di provincia. Ma non sarebbe un vero racconto sugli anni ’80 e ‘90 senza uno dei grandi mostri di quell’epoca storica, indimenticabile anche per chi l’ha vissuta solo marginalmente: l’AIDS. Dove non arriva la legge, arriva la malattia, che pian piano si prende molti degli amici di Gilles e infine lui stesso, che nel frattempo si è rifatto una vita come gestore di negozi di musica indie, mentre il racconto aveva preso la forma di una narrazione in musica, da un lato, e del romanzo da expat, dall’altro. Nemmeno la malattia, però, riesce a sopraffare la vitalità del nostro eroe – too punk to die, troppo punk per morire, si auto-definisce – che anzi grazie alle terapie innovative, alle cure amorevoli della sua compagna di fuga Cecilia e al sistema sanitario portoghese – che non gli chiede mai documenti – vivrà ancora molto a lungo prima che la malattia abbia la meglio, solo nel 2019. Nel frattempo Gilles Bertin avrà altri 20 anni di latitanza tra il Portogallo e la Spagna, e un altro paio di vite da vivere, e che vivremo con lui grazie all’ultima fase della sua incredibile storia, forse la più sorprendente: quella dell’autore. Il rauco e potente cantante dei Camera Silens, l’improbabile rapinatore di successo, si rivela uno scrittore da non sottovalutare: capace di una scrittura semplice senza essere banale, di un senso del ritmo affinatissimo – e qui forse la musica c’entra qualcosa – di utilizzare registri molto diversi da un passaggio all’altro con estrema naturalezza e credibilità, anzi autenticità.


Chi vorrà leggere “La mia vita da punk” scoprirà che il titolo avrebbe forse dovuto essere al plurale, e non potrà che essere catturato dall’incredibile storia di Gilles Bertin e dei suoi trent’anni di latitanza che, pur dalla prospettiva di chi dovrebbe guardarsi le spalle, ci offrono un punto di vista originale sui nostri ultimi trent’anni, ma con un occhio sempre rivolto a quegli anni ’80 da cui, come diceva Manuel Agnelli, non si esce mai davvero vivi, neanche quando di vite se ne hanno tante quanto l’autore di questo libro.

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