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  • Immagine del redattoreFranz Foti

La schiavitù nel nome della competitività



Come raccontato anche ieri da Luca Attanasio sul Domani, per l'ennesima volta il tentativo dell'Unione Europea di darsi un più serio regolamento in tema di abusi nella filiera produttiva delle proprie aziende, sia nel campo dello sfruttamento del lavoro che in quello ambientale, ha subito un nuovo stop. Germania e Italia, infatti, si oppongono fermamente a ogni tipo di regolamentazione in questo senso, persino ora che l'UE ha significativamente annacquato il provvedimento iniziale, che ora riguarderebbe solo le aziende con almeno 1.000 dipendenti e 300 milioni di fatturato.


Perché il governo del nostro paese e quello tedesco sono contrari a questo provvedimento - mentre quello francese starebbe cercando di depotenziarlo ulteriormente? Secondo quanto scritto dal Financial Times la scorsa settimana, la ragione è che questi paesi temono che le misure che si richiederebbero alle nostre aziende per "ripulire" la propria supply chain risulterebbero in una inevitabile perdita di competitività.


Facciamo un passo indietro, per un momento. Di che cosa parliamo, quando parliamo di "responsabilità" per quanto avviene lunga la filiera produttiva di un'azienda? Lo sa bene chi ha letto Rosso cobalto, l'exposé di Siddharth Kara sull'inferno delle miniere da cui in Congo si estrae la maggior parte del cobalto che si trova nei nostri smartphone, tablet e computer portatili, nelle batterie delle nostre auto elettriche, nei nostri pannelli solari e persino nelle turbine eoliche. Nel duro racconto che l'autore americano - accademico esperto di schiavitù moderna e attivista per i diritti umani - ci presenta nel libro, gli argomenti che sentiamo nei programmi tv o che leggiamo sulle pagine economiche dei quotidiani in termini di competitività assumono una dimensione molto concreta, che investe con violenza e spregiudicatezza le vite di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, in Africa come nel resto del mondo. Parliamo, ad esempio, di persone che passano la vita a scavare alla ricerca di cobalto in condizioni di lavoro che definire deplorevoli è un blando eufemismo, respirando un'aria resa tossica dalle esalazioni delle raffinerie, immersi nel fango e nelle acque stagnanti spesso contaminate da metalli pesanti quando non radioattive, infilati dentro cunicoli scavati alla bell'e meglio per decine di metri in profondità, a rischio continuo di crolli e incidenti mortali, il tutto per pochi centesimi al giorno, per permettere alle aziende di cui sopra di massimizzare i propri guadagni.


Sebbene il Congo, come ben racconta Kara, abbia una storia particolarmente tragica di sfruttamento, con l'Occidente - e oggi anche la Cina - che da un secolo mezzo tiene il proprio stivale sul collo del paese per depredarlo delle sue molte ricchezze e per sfruttarne sino allo sfinimento la popolazione, ciò che si racconta in Rosso cobalto è certamente valido per molti altri settori industriali e per diversi altri paesi.


Ma ehi, è il capitalismo bellezza.


Un messaggio apparentemente di banale semplificazione, ma che in realtà riporta abbastanza fedelmente quanto i nostri governi stanno affermando con questo ennesimo stop al tentativo di darci una parvenza di umanità nella gestione delle nostre filiere produttive.

Perché sia chiaro che quando si dice che non si può sacrificare la competitività delle nostre aziende, si sta dicendo che a noi la schiavitù va benissimo. Basta che sia lontana, e possibilmente invisibile.



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