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Lo spirito dei tempacci




Quando al ventennio più impegnato del XX secolo, quello tra i Sessanta e i Settanta, quello delle lotte operaie, dei moti studenteschi, e persino degli anni di piombo, è seguito il decennio più disimpegnato e pneumaticamente vuoto di sempre, quegli anni Ottanta i cui postumi stiamo smaltendo ancora oggi, quarant’anni suonati dopo, qualcuno ha pensato che forse era giunta la fine della società per come la conoscevamo. Il giorno prima i giovani erano capelloni che facevano i picchetti davanti ai concerti perché la musica era un diritto e non volevano pagare il biglietto, quello dopo erano tutti ingellati che imploravano i genitori per avere un piumino Moncler, o sognavano di sposare Simon Le Bon. Cosa diavolo era successo? Alcuni, tagliando corto con le analisi sociologiche e andando al punto, hanno teorizzato che molto semplicemente, a un certo punto, la gente si era rotta le palle, e non voleva più pensare, solo divertirsi, e ovviamente consumare. Chi ha avuto antenne abbastanza aguzze da capire quello che stava succedendo ha fatto i soldi, chi invece ha continuato, bontà sua, a credere nei cineforum ha fatto una fatica della miseria. In un modo o nell’altro, tutto sommato, siamo comunque riusciti a sopravvivere.

 

Uno che sicuramente alcune cose le aveva capite è Roberto D’Agostino, colui che ha tenuto a battesimo il concetto di edonismo reaganiano e che nel 1985, tra gli ospiti di Arbore a Quelli della notte, si presentava come lookologo ed esperto dei nuovi trend discettando di Veca e Bonito Oliva. Un approccio colto, il suo, ma non nel senso di cattedratico, anzi, piuttosto teso a mischiare alto e basso senza remora alcuna. Nel 1991, in una memorabile puntata de L’istruttoria di Giuliano Ferrara, fece quello che tutti almeno una volta nella vita abbiamo sognato di fare, ovvero mollare uno schiaffo in faccia a Vittorio Sgarbi, poco dopo averlo definito “professore non si sa di cosa”: che invidia, e che mirabile anticipo sui tempi. Poi, nel 2000, ha fondato Dagospia, sito di gossip e retroscena assimilabile all’americano Drudge Report in cui, come piace al suo ideatore, si alternano rivelazioni di primissima mano sul potere che conta e soubrette scollacciate, e in cui è nato fra le altre cose il Cafonal, la rubrica fotografica di inestimabile valore sociopolitico inizialmente curata dal paparazzo Umberto Pizzi, che sarebbe potuta essere essere il vero canovaccio de La grande bellezza di Sorrentino e invece non fu, o almeno non così letteralmente.

 

Ora, a più di vent’anni di distanza, e raggiunta l’età arbasiniana giusta, Dago si autocelebra in Roma, santa e dannata, lunga docuchiacchierata con Marco Giusti e altri sodali, da poco disponibile anche su RaiPlay, in cui si celebra la Capitale, certo, ma più che altro la natura aleatoria del potere, dai primi anni del Mucca Assassina in cui i politici facevano scappatelle raccomandandosi che non fossero presenti i fotografi, agli anni più recenti in cui invece speravano vivamente di trovarceli, passando per Papi, “papi”, primi ministri, banchieri, direttori di giornali e tycoon televisivi. Ascoltarlo, vincendo l’eventuale leggero fastidio che potrebbe manifestarsi, è davvero molto utile a capire come alcune questioni capitali siano in effetti molto più grandi, profonde e complesse di quanto ci immaginiamo, nella nostra piccola dimensione di cittadini ed elettori, ma anche, al contrario, molto spesso grottesche, e magari condizionate da quelli che lui chiamerebbe banali affari “di fica”.

 

La tesi è che vivere in una città piena di rovine aiuta a relativizzare: applicata al tempo corrente, significa che in un posto in cui letteralmente son caduti imperi, che impressione volete possa fare una Premier fascistella che pensa di spadroneggiare? A un certo punto il sistema si stuferà di lei, come ha fatto tante volte con leghisti, democristiani, socialisti, comunisti e infiniti altri, e la metterà da parte. Il che è consolante, pensando appunto allo spirito dei tempi attuali. Certo, si respira una certa voglia di autoritarismo, si manganellano i ragazzini, si ha insomma l’impressione di un certo scivolamento, per non dire decadimento. Preoccuparsi è comprensibile, ma mica perché si sta di fronte al Moloch, al massimo si tratta di mezze figure che si scannano per stare davanti al buffet di una festa ai Parioli, e che quando rivestono ruoli istituzionali sono capaci di rendersi ridicoli, incredibile a dirsi, ogni santo giorno. Siamo sopravvissuti ai cupi Settanta, ai consumistici Ottanta, ai vacui Novanta, e a qualsiasi definizione si voglia dare di quello che è venuto dopo: forse, in fondo, ce la possiamo fare anche stavolta.

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