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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Buon Natale, stronzi

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Dopo una vita di insistite dissolutezze e salute a dir poco precaria, l’altro giorno è infine morto Shane McGowan, voce e leader dei Pogues, musicista e scrittore, uno dei più grandi poeti di questo tempo, senza discussioni. Viene da piangere, e da fare un brindisi - più di uno, in effetti -, lui per primo probabilmente avrebbe voluto così. A quest’ora avrà raggiunto Sinéad O'Connor, in qualche posto che forse non è il paradiso ma in cui comunque si beve parecchio, si discute, si litiga, si fa a cazzotti, e poi in qualche modo le cose si mettono a posto, come accade tra persone adulte e che badano al sodo. I social sono pieni di commossi ricordi, ed è una ben strana schizofrenia, quella per cui si piange qualcuno le cui parole non sarebbero ritenute accettabili nel consesso attuale. Nei suoi ultimi anni, peggio del decadimento fisico, McGowan ha dovuto anche sopportare (o più probabilmente se ne è sbattuto, ma a noi è comunque toccato assistere) un penoso dibattito sull’opportunità di continuare a trasmettere Fairytale of New York, una delle canzoni natalizie più belle di sempre, certamente la più sorprendente (da lì è tratto il beneaugurante titolo di questa puntata delle Bolle), per via di quei versi in cui lui e lei, passato l’amore che inizialmente li legava, si insultano dandosi rispettivamente della “puttana” e del “frocio”. Parole che non si possono più dire nella vulgata corrente, almeno in teoria, anche se sfugge il fatto che non le dice nemmeno McGowan: le dicono i due personaggi che ha inventato per la canzone. Due disperati, e può capitare che i disperati parlino così, provate a frequentarne qualcuno e vedrete. Lui peraltro, che un po’ disperato lo era davvero, gode di una dispensa doppia, essendo irlandese oltre che poeta: come dicevano in The Commitments, il film di Alan Parker del 1997 su un’improbabile band di scalcagnati ma talentuosi dubliners incerti sull’opportunità di suonare proprio una musica nera come il rhythm n' blues, «gli irlandesi sono i più negri d'Europa, i dublinesi sono i più negri d'Irlanda, e noi di periferia siamo i più negri di Dublino: quindi ripetete con me ad alta voce: sono un negro e me ne vanto».

Un concetto, quello di contesto (o, se preferite, di differenza fra significante, significato e referente), che Ricky Gervais spiega molto bene in Armageddon, il suo ultimo spettacolo che arriverà su Netflix proprio per Natale (“happy christmas your arse”, appunto), ma l’aveva già fatto altrettanto bene Lenny Bruce 70 anni fa, cristallizzato poi post mortem da Dustin Hoffman nel celebre monologo sul “valore delle parole” (se non sapete di cosa stiamo parlando, cercatelo), e spiace dirlo ma ebbene sì: se vi offendete, è perché non capite.


Questo la dice lunga sulla stupidità del dibattito culturale corrente, che per tragica ironia unisce destra e sinistra: la destra fondamentalista cristiana mette al bando i libri nelle scuole e nelle biblioteche pubbliche, la sinistra lo fa con le parole, a mezzo social, e a nessuno dei due interessa minimamente il contesto che circonda quelle parole. Entrambe le fazioni si dicono mosse dalle migliori intenzioni, e questo taglia qualsiasi possibile discussione: deus vult. Col tragico effetto collaterale che gli unici a zittirsi per paura di dire una cosa sbagliata sono quelli che si già si ponevano il problema, mica quegli altri.

Nel nostro piccolo, è successo anche a People, quando qualche anno fa la nostra casa editrice ha pubblicato, in un momento in cui si parlava molto di Black Lives Matter, un prezioso libro di Ivan Vaghi sullo “sport che si ribella”, intitolato Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro, e qualcuno si era risentito. Peccato che non fossero parole dell’autore, ma di Mohamed Ali (di nuovo, se non cogliete la citazione, prima di puntare il dito usate Google). È questo, di cui stiamo parlando, di censurare Ali, Malcolm X, James Baldwin? È una clamorosa eterogenesi dei fini arrivare a cancellare, per difendere una sensibilità, chi quella sensibilità la difendeva già da prima, e forse anche meglio, senza offesa. Il contesto esiste, così come esistono le scale di valori. Quello di Shane McGowan e, per dire, di Pio e Amedeo “non è lo stesso campo da gioco, non è lo stesso campionato, e non è nemmeno lo stesso sport”, per citare Pulp Fiction. Ed è per questo, sempre a proposito di Tarantino, che in Django è legittimo usare la parola “negro”, perché è un film sullo schiavismo pieno di razzisti che la usano, la stessa ragione per cui in Bastardi senza gloria il colonnello Hans Landa delle SS chiama gli ebrei “ratti”: perché è un nazista, ecco perché, e questo è quel che pensavano - pensano, e dicono - i nazisti. Pio e Amedeo, invece, non arrivano nemmeno al livello del gay represso alla De Sica in un film dei Vanzina (gli piacerebbe).


Ma tutto finisce nello stesso frullatore, perché non si vuole affrontare il dibattito sul contesto, sul merito, sul valore e sul peso stesso delle cose, per paura di finire nel campo dell’opinabile, che però esiste, e se ne fotte alla grande delle etichette in cui lo si vorrebbe rinchiudere. Ne risulta un pensiero che non è solo debole, è debolissimo, tisico, e quindi nella settimana del femminicidio di Giulia Cecchettin, oltre all’ennesima tragedia, ci siamo anche dovuti sorbire un dibattito sulle responsabilità dei tiktoker, su quell’evergreen della corruzione minorile che è rappresentato dal metal, e ovviamente sulla trap, l’isteria culturale del momento, e pazienza se molti, ascoltando The Andre che ne reinterpretava i testi, all’inizio avevano creduto che davvero si trattasse di canzoni di Fabrizio De André, e non di qualche truce ragazzetto tatuato. Una tempesta di luoghi comuni e “signora mia che tempi” talmente fitta che è impossibile capire quando arriva da destra o da sinistra: trent’anni fa era colpa di Dylan Dog (rendiamoci conto), ed era inutile far notare che il suo ideatore, Tiziano Sclavi, fosse uno degli scrittori più sensibili della sua generazione, mentre settant’anni fa era Elvis Presley a corrompere i giovani con la sua aria ambigua (oggi si direbbe “fluida”), giudizio ironico, detto di uno che invecchiando si è dimostrato essere più conservatore di quei genitori che tanto spaventava. A Ladispoli un’amministrazione che si dice «sempre stata attenta al tema della violenza di genere, sostenendo tutte le iniziative possibili per contrastare questo fenomeno», cancella un concerto di Emis Killa, in America un gruppo di genitori sfrutta le assurde regole sui libri ammissibili imposte dai fondamentalisti cristiani per mettere al bando la Bibbia, che in effetti di nefandezze ne contiene parecchie, a dispetto del suo lunghissimo successo editoriale. Cosa che sul momento fa molto ridere, ma in realtà dovrebbe portare a chiederci se è in questo tipo di gara al ribasso (l’aforisma sull’inutilità di discutere con gli idioti lo ricordiamo tutti), che siamo sicuri di voler vivere.


È un cupio dissolvi che tiene insieme opposti fideismi, il timore censorio e la fede cieca, come accade in ogni inquisizione che si rispetti, ed è per questo che quando Chiara Valerio dice, come ha fatto qualche giorno fa presentando la nuova edizione della fiera Più libri più liberi, che «leggere fornisce le parole e più parole si hanno, meno mani si alzano», manca il pezzo in cui il lettore dovrebbe chiedersi quali siano, quelle parole, e che valore abbiano, cosa vogliano dire. Non solo perché anche il Mein Kampf, dopotutto, era un libro, ma perché - senza fare la solita reductio ad hitlerum - in questo momento gli scaffali dei bestseller sono pieni di libracci di destra, tra Porro, Feltri, Vannacci e Meloni con Sallusti. Ecco, facciamoci un regalo di Natale e smettiamola di parlare di contenitori, visto che ne girano anche di pessimi e dovremmo avere il coraggio di discuterne, vi va? Parliamo di contenuti, anche se è più difficile. Per dirla all’irlandese, qualcuno si prenda le sue cazzo di responsabilità.

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