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  • Immagine del redattoreAlessandra Vescio

La salute è un diritto di genere



L’11 novembre è la Giornata Internazionale della Vulvodinia, un evento che ha lo scopo di sensibilizzare e aumentare la consapevolezza e le conoscenze su una malattia cronica ancora poco conosciuta e studiata. Di vulvodinia soffre tra l’8 e il 10% delle donne al mondo, ma almeno in Italia bisogna aspettare tra i 4 e i 5 anni per ricevere una diagnosi corretta e poter dunque iniziare le cure più adeguate. Come la vulvodinia, anche l’endometriosi è contraddistinta da un notevole ritardo diagnostico: secondo i dati resi disponibili dal Ministero della Salute, chi soffre di endometriosi aspetta in media 7 anni prima di ottenere una diagnosi.


Ma qual è la motivazione dietro questi ritardi? È puramente una questione di complessità delle patologie e difficoltà nell’identificazione dei sintomi o c’è dell’altro? È un problema confinato alle malattie croniche o tocca svariati ambiti della salute? E quali sono le conseguenze di queste attese così lunghe sul benessere psicofisico di una persona? Nel saggio La salute è un diritto di genere, in uscita per People il 10 novembre, ho provato a rispondere a queste e tante altre domande che vengono fuori ogni volta che si parla di salute e discriminazioni di genere.


Lo stato attuale delle cose non è rassicurante. I dati, gli studi scientifici, le esperienze dirette e i pareri esperti oggi ci dicono che le discriminazioni di genere in ambito medico e sanitario esistono e si manifestano su più livelli. Non si tratta di casi singoli o eccezionali, come spesso viene ancora raccontato, e le disparità non sono delimitate alle patologie croniche: è piuttosto un problema sistemico, un macro fenomeno conosciuto anche come gender health gap, che parte da lontano, tocca la formazione medica e si alimenta col sessismo e le disuguaglianze presenti nella nostra società, rendendo impari se non impossibile l’accesso alle cure a buona parte della popolazione.


«Molto di quello che sappiamo oggi riguardo tante malattie e disturbi, dosaggi di farmaci, raccomandazioni sull’uso di vari medicinali, è basato in maniera sproporzionata sull’uomo», mi ha detto infatti a questo proposito April Bailey, professoressa all’Università del New Hampshire e una delle tante esperte che ho intervistato per La salute è un diritto di genere, e «sebbene oggi ci sia molta più consapevolezza di ciò», gli effetti di un sistema costruito su e per l’uomo si sentono ancora. Non è tutto qui. Il “paziente tipo” su cui si basano la formazione e la conoscenza medica è un uomo bianco e cisgender, per cui vengono automaticamente escluse tutte quelle identità che si discostano da questo profilo. Uno degli esempi più citati quando si parla di disparità di genere in ambito medico riguarda l’infarto del miocardio: nonostante le differenti manifestazioni nell’uomo e nella donna, molti medici e membri del personale sanitario conoscono e sono dunque in grado di identificare per tempo soltanto i sintomi maschili, considerati appunto standard, ignorando completamente quelli femminili.


Il gender health gap ha dunque ripercussioni sulla vita e la salute mentale e fisica delle persone, ma induce anche a considerare ostile un sistema che trascura, non crede e minimizza. È molto comune tra le donne e persone che hanno fatto esperienza di discriminazioni in ambito medico e sanitario rinunciare a cure essenziali e prevenzione e non rivolgersi al personale sanitario in caso di bisogno, pur di non rivivere esperienze traumatizzanti: è il caso delle donne grasse, che spesso si sentono dire che tutti i loro problemi di salute sono dovuti al peso, così come delle persone transgender, che si ritrovano ancora oggi molto spesso a dover confrontarsi con medici e sanitari impreparati se non aggressivi.


Riconoscere l’esistenza di discriminazioni di genere in ambito medico e sanitario è fondamentale, sia per ridare dignità a chi per troppo tempo è stato marginalizzato, sia per capire come risolvere e colmare questo pericoloso gap di genere: l’intento infatti non può e non deve essere quello di criticare e attaccare indiscriminatamente chiunque faccia parte del personale sanitario, né tantomeno ridurre tutto il problema a colpe personali. Piuttosto è necessario capire da dove derivano certe disparità e cosa si può fare per superarle. Questo è infatti l’obiettivo del saggio La salute è un diritto di genere: andare in profondità e recuperare l’essenziale fiducia nella scienza e nella medicina, nelle cure e nella ricerca, nelle competenze di chi da anni si impegna per cambiare le cose e capire cosa fare per garantire davvero il diritto alla salute a tutte e tutti. Le tante professioniste, mediche e studiose con cui ho parlato, che ho letto e ascoltato per la stesura di questo libro stanno già lavorando in questo senso, e mi hanno dimostrato che colmare questo divario è tanto importante quanto possibile.

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