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  • Immagine del redattoregiuseppe civati

Quando la storia diventa campo di battaglia


L’uso politico della storia: è un tema che mi appassiona molto, anche alla luce delle continue esternazioni degli esponenti del governo che “non sono fascisti ma”.


I meloniani, pur ribadendo di aver «consegnato il fascismo alla storia», continuano a intervenire con approccio revisionistico sulla nostra storia nazionale, mistificando più di un evento, da via Rasella al 25 aprile passando per le vicende belliche del confine orientale, per ridefinire il giudizio complessivo sulla Resistenza e sull’antifascismo della nostra Repubblica. Lo stesso fanno con piglio nazionalistico a proposito dell’italianità e della “tradizione”

Einaudi ha appena pubblicato, a proposito dell’uso distorto e interessato e insomma politico della storia, un libro piccolo e intenso di Nicolas Werth.


«Putin storico in capo» è il titolo ed è già un manifesto, perché Werth, presidente di Memorial France (Memorial è l’Ong russa a cui è stato assegnato un anno fa il premio Nobel per la pace e che ha subito l’attacco del sistema putiniano nel 2021), ricostruisce il lavoro di interpretazione storica della Russia che ha accompagnato il lunghissimo periodo di potere di Putin e preparato il terreno per l’invasione dell’Ucraina.


Come già in altri Paesi – su tutti l’Ungheria di Orbán, che su questo ha costruito una base fondamentale per la democratura che guida – la storia in Russia è diventato campo di battaglia. Lo è da tempo, perché dopo la fine dell’Unione sovietica il giudizio su ciò che era accaduto dal 1917 in avanti aveva ovviamente già registrato grandi cambiamenti.


L’operazione di Putin però è strategica e prepotente, perché individua nel 1945 il riferimento principale della storia russa recente, descrive una traiettoria che non è soltanto nazionalistica ma di segno imperialistico, se è vero che ci si riallaccia direttamente alla tradizione degli zar.


Come ha dichiarato nei giorni scorsi, mentre si assisteva alla ribellione della Wagner, il 1917 non è tanto l’anno della rivoluzione d’Ottobre, ma quello della «pugnalata alle spalle»: la colpa di Lenin è quella di aver firmato una pace disonorevole, che ha portato la Russia a perdere un quarto dei territori europei e che è stata riscattata soltanto dalla grande vittoria nel secondo conflitto mondiale. Una vittoria che non va assegnata al comunismo staliniano ma al nazionalismo russo e allo spirito del suo popolo.


Da lì si riparte e a ritroso si uniscono gli elementi che descrivono una Grande Russia, che si oppone ancora una volta ai “nazisti” e che vuole ridefinire i confini che ritiene le appartengano – all’insegna di quella tradizione che così è ricostruita.


Ciò ha comportato l’“operazione speciale” ai danni dell’Ucraina e, ben prima, ha silenziato le voci dei dissidenti – cioè tutti coloro che la pensavano diversamente – e anche di chi si occupava della storia russa senza il filtro putiniano.


«Questa politica, sempre più aggressiva, non ha soltanto estromesso i punti di vista eccentrici, ma ha posto in grave pericolo tutti i “produttori di storia”: storici, pubblicisti, giornalisti, attori della società civile che si occupano di storia e memoria senza aderire al discorso ufficiale.»


Il controllo della memoria storica per Putin assume forme sincrestistiche, tenendo insieme l’esperienza sovietica e il retaggio zarista, proprio perché mira a preservare e a rilanciare un “eterno” russo, un’unica storia, che non conosce interruzione e si dispiega nei millenni.


Lo strumento è formidabile perché la storia agisce fortemente sull’attualità e sul dibattito pubblico, sempre più guidato e uniformato alla vulgata che piace al Cremlino e che il Cremlino autorizza.

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