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  • Immagine del redattore Paolo Cosseddu

Là dove senti cantare


Più o meno sette anni fa, Kristen Stewart era l’ospite di una puntata del Saturday Night Live, e come da tradizione le venne affidato il monologo d’apertura. Nell’occasione, il suo fu un po’ diverso dal solito. Fece vedere una serie di post dell’allora presidente Trump in cui veniva pesantemente criticata per essersi lasciata con Robert Pattinson, e ne approfittò per farsi “odiare ancora di più”, confessando di essere “sooo gay”, con un certo clamore, ma il punto era un altro: perché mai il leader del mondo libero, come gli americani usano chiamare il loro comandante in capo, l’uomo più potente del mondo, dovrebbe occuparsi di cosa fa o non fa un’artista nella sua vita privata? Nel caso in esame ben undici volte, peraltro, una specie di ossessione.

 

Un salto in avanti nel tempo, restando in America, dove la campagna elettorale per le presidenziali di quest’anno sta entrando nel vivo, e restiamo ancora - sigh - su Trump: la cui preoccupazione, al momento, o almeno “una delle”, è Taylor Swift. Più di Putin, per dire, che invece gli piace assai, ricambiato. Lei si era già schierata contro The Donald anni fa, gira da tempo sui social un video in cui spiega ai suoi che vuole prendere posizione, anche se forse non le converrebbe. Poi, più recentemente, si è fidanzata con Travis Kelce, che proprio in questi giorni ha vinto il Superbowl con i suoi Kansas City Chiefs. E la destra Maga sta uscendo pazza, perché il combinato disposto tra lo sport e l’evento più popolari del Paese con la popstar attualmente più celebre del pianeta semplicemente non è tollerabile. Trump, ovviamente, ne sta dicendo di tutti i colori, nei suoi comizi Stato per Stato, e Fox News addirittura le dedica trasmissioni in cui viene sostenuto che Taylor Swift è un’operazione di psi-ops del deep state o dei servizi segreti per condizionare il pensiero dei cittadini americani. Che al limite dovrebbero interrogarsi sulla sua fanbase e in generale sul fenomeno stan, con quel vago retrogusto di setta, ma questo sarebbe un altro discorso.

 

Diceva Léopold Sédar Senghor, politico e poeta senegalese: “Là dove senti cantare fermati, i malvagi non hanno canzoni”. Che non è del tutto vero, per essere onesti (è notizia di questi giorni che l’Italia tornerà ad ospitare, dopo parecchio, un festival nazi-rock), ma in fondo nemmeno importa, perché il punto è che invece a quanto pare loro, i malvagi, ci credono, e un po’ ne hanno paura. La contaminazione tra politica e arti popolari - le canzoni, ma anche il cinema e la tivù - non è esattamente una cosa nuova, e non sempre è a fin di bene. Basti pensare a chi, come ad esempio Elia Kazan, denunciava i colleghi ai tempi del maccartismo, all’amicizia di Elvis Presley con Nixon, all’anticomunismo di John Wayne, ma se mettiamo sull’altro piatto della bilancia John Lennon, o Bob Marley che fa stringere la mano ai due leader delle fazioni che si stavano combattendo nella guerra civile giamaicana, il saldo è tutto sommato positivo.

 

Certo, è lecito mantenere un goccio di sano dubbio: un bel documentario uscito un paio di settimane fa ricostruisce la storia di come venne messa insieme We Are the World, la canzone che si proponeva di aiutare a combattere la carestia in Etiopia, e l’assurdo parterre di partecipanti, e a un certo punto si sente Stevie Wonder proporre di inserire una strofa in swahili, idea cui segue uno snervante dibattito che a un certo punto viene risolto quando Sir Bob Geldof fa presente che gli etiopi non parlano swahili. Per dire quanto gli artisti, seppur impegnati, vivano in un iperuranio un po’ distante dalle questioni reali. Allo stesso Geldof, che era promotore di Band Aid e poi del Live Aid, e che proprio in quella notte del 25 gennaio 1985 fa tutta una tirata sulla questione, avevano risposto - a lui e a parecchie altre star - i Chumbawamba, con l’album Pictures of Starving Children Sell Records, ovvero “le foto dei bambini che muoiono di fame fanno vendere dischi”, e visto che sull’intera operazione Live Aid c’è gente che ancora oggi si interroga forse un po’ avevano ragione.

 

Insomma è umano, soffermarsi sulle intenzioni: gli artisti impegnati sono in buona fede? Ci guadagnano? Chi lo sa. I Cccp - che fanno la reunion, appunto - cantavano “non fare di me un idolo, mi brucerò”, mettendo saggiamente le mani avanti. Ma se sono solo canzonette, per citare il lemma più abusato di sempre sull’argomento, perché la Rai, la maggioranza e il Governo dovrebbero preoccuparsi di cosa dicono Ghali e Dargen? Perché Trump dovrebbe temere una popstar? E, alla fine, è davvero così importante andare a spulciare i vecchi post di Ghali per mostrare le sue uscite sessiste, cambiano qualcosa rispetto al massacro in corso a Gaza? E cambierebbero, in prospettiva, se anche un giorno dovesse rivelarsi un perfetto stronzo? L’artista lancia il sasso, i motivi per cui lo fa o la sua coerenza personale sono importanti ma lo sono comunque un po’ meno dei motivi per cui l’ha tirato, in fondo, specie in un ambiente in cui la stragrande maggioranza campa benissimo facendo finta di niente. E ci ricordano un’altra cosa che dovremmo chiederci tutti e tutte, mirabilmente sintetizzata da Zerocalcare in una risposta a chi lo criticava per la sua posizione su Israele, lui che in quanto artista è certamente più impegnato della media: “tu, esattamente, che cazzo fai?”

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