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  • Immagine del redattoreLaura Campiglio

È fernut ‘a zezzenella



A volte capita di sentirsi pervase da un disagio confuso, fastidiosamente indefinibile, come una nostalgia in anticipo su qualcosa – ma cosa? – che sta per finire.

Ci diciamo che dev’essere l’autunno con la sua decadenza intrinseca o forse qualcosa di irrisolto nelle nostre vite, poi succede di entrare in un bar all’ombra del Vesuvio, precisamente a Castellammare di Stabia, e ritrovarsi accanto un signore accigliato che ammonisce un ragazzino: è fernut ‘a zezzenella (più o meno l’equivalente partenopeo di “è finita la pacchia”, laddove il concetto di pacchia è plasticamente significato da una mammella, bovina o umana a seconda delle interpretazioni, tristemente esausta). Ed ecco l’epifania: non è l’autunno, non è l’irrequietezza. È la XIX legislatura che sta per cominciare, ecco cos’è.


Perché dai, ammettiamolo: il limbo in cui abbiamo vissuto dal 25 settembre a oggi è stato meno peggio di quanto temessimo. Ci aspettavamo l’apocalisse, abbiamo avuto il lento trascinarsi delle procedure burocratiche: tanto per cominciare la legge elettorale non l’hanno capita manco al Viminale (proprio su questo blog insinuavamo il sospetto che nessuno avesse davvero penetrato i misteri del Rosatellum, ma così è un po’ troppo) e per una settimana buona la politica è stata intenta a raccapezzarsi su chi fosse stato eletto, e dove. Quanto al toto-ministri, ai capricci di Salvini, agli incontri ad Arcore, l’intero pacchetto è passato in secondo piano rispetto a questioni ben più cogenti, su tutte gli sviluppi della guerra in Ucraina. E soprattutto, Giorgia Meloni è sparita dai radar, si è fatta vedere poco e ha dichiarato ancor meno, regalandoci sparuti ma preziosi attimi di oblio. A volte, magari appena svegli, ancora intontiti dal sonno, sembrava tutto un brutto sogno: lei, la sua vittoria schiacciante, la sua imminente investitura a Presidente del Consiglio.

Manca ancora qualche giorno perché Meloni salga al Colle per ricevere l’incarico di formare il governo, ma già da adesso non si può più far finta di niente: la zezzenella è finita, anzi finisce precisamente stamattina con una prima assise che potrebbe rivelarsi così surreale da rappresentare un ritorno alla realtà quantomeno brusco, tipo ceffone o secchio d’acqua gelata.


Si dà il caso infatti che da ieri notte, e probabilmente solo per poche ore ancora, Liliana Segre sia la seconda carica della Repubblica: sarà lei stamattina alle 10:30 a inaugurare la XIX legislatura nel ruolo di presidente del Senato. Un ruolo provvisorio, sia chiaro: è in agenda proprio stamane l’elezione del successore di Elisabetta Casellati, ed essendo lo scranno più alto di palazzo Madama vacante la prassi vuole che a presiedere la seduta sia il senatore più anziano. Toccherebbe a Giorgio Napolitano, 97 anni, ma siccome il presidente emerito non sarà presente in aula, il compito di aprire ufficialmente la nuova legislatura e di presiedere alla votazione spetta a lei.

Quello che succederà è che Segre aprirà i lavori con un discorso: le parole con cui questa legislatura prenderà il via saranno quindi le sue, e verosimilmente contempleranno la sua esperienza di sopravvissuta all’Olocausto, il richiamo ai valori dell’antifascismo e all’articolo 3 della Costituzione.

Quello che potrebbe succedere è che Liliana Segre, dopo il discorso di apertura e la votazione, proclami l’elezione a presidente del Senato di Ignazio La Russa, un ex missino col busto di Mussolini in casa (o in cantina, se nelle ultime settimane ha avuto la prontezza di farlo sparire) secondo cui gli italiani “sono tutti eredi del Duce”.


L’elezione di La Russa non è certa ma è comunque molto probabile: da tempo Meloni spinge perché sia lui a rivestire la carica di Presidente del Senato, la seconda in ordine di importanza dopo il Presidente della Repubblica (ripassino delle funzioni: se Mattarella per qualunque motivo non fosse disponibile, sarebbe La Russa a farne le veci in patria e all’estero; sempre lui a proporre la calendarizzazione delle votazioni, con possibilità di rinviare alle calende greche l’approvazione di leggi su temi non grati).

Se davvero fosse Segre a scandire in aula il nome di La Russa ci troveremmo di fronte a un passaggio di consegne emblematico, che con tutta la potenza del paradosso ci proietta nella distopia che ci attende (per intenderci, se uno sceneggiatore avesse proposto una scena del genere qualche collega più assennato gli avrebbe detto accannala, che fa troppo Orwell).

Ma mentre a noi viene da ridere, da piangere, da scappare all’estero o darci all’eremitaggio in una spelonca dimenticata da dio e dagli uomini, è sempre lei, Liliana Segre, che compostissimamente ci indica la via: “Sto a vedere”, ha risposto a chi le chiedeva un parere sul prossimo governo, “sono alla finestra, guardo quello che succede”. Ecco, per chi come la sottoscritta in queste due settimane ha ceduto alla tentazione di rifuggire la realtà chiudendo gli occhi: riapriamoli, e da adesso in poi teniamoli bene aperti.


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